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Consapevolezza nello yoga: a quale mente dobbiamo tendere?

Tratto questo argomento nel mio saggio “Immergersi nel flusso dello yoga”

Un estratto dal I CAPITOLO: Che cosa è Yoga

Swami Niranjanananda afferma che ciò accade (si diventa consapevoli), consapevoli di sè, quando si riesce ad estendere la mente dentro “quella regione”. Se c’è del dolore in qualche parte del corpo, allora la mente è capace di riconoscere l’esperienza di dolore che esiste in quella parte; se c’è un oggetto che risulta visivamente attrattivo, gli occhi lo osservano, la mente lo riconosce, e quel riconoscimento viene tradotto dalla mente nel suo stesso linguaggio come una cosa piacevole, attrattiva e bella. La mente si estende al di fuori della dimensione manifesta, ed è capace di riconoscere ed essere consapevole delle situazioni, dell’ambiente, degli oggetti, dei piaceri e della sofferenza”.

A quale mente dobbiamo tendere?

Questo è il regno di buddhi, e buddhi (la mente dell’intelletto) viene sperimentato nello spazio della testa, in chidakasha, lo spazio interno della mente, quello situato, visivamente, al di sopra delle nostre sopracciglia.

Inizialmente la consapevolezza nello Yoga è quello di cercare di ridurre il flusso dei pensieri, la tendenza alla loro proliferazione che può diventare fonte di sofferenza, il riportare la mente ad un aspetto “non giudicante” del nostro stesso pensiero, accettando che esso scorra inesorabilmente, come sua abitudine; accogliere il pensiero, osservarlo diventando degli spettatori, dei drashta dei nostri pensieri.

Ed è questo a cui dobbiamo tendere nella nostra pratica che, da formale, diventerà, col tempo, informale.

Per indicare il concetto di consapevolezza il sanscrito utilizza il termine pragyaanam, la “conoscenza suprema”, dove prat significa il “supremo” e jnana“ conoscenza”.

Come si sperimenta questo stadio di conoscenza suprema?

Con pratiche che favoriscono la creazione e la sperimentazione di opportuni stadi di conoscenza, soprannominati i “cinque sguardi mentali”; questi cinque livelli di consapevolezza possono essere sviluppati, ad esempio, durante l’esecuzione di alcune semplici sequenze di asana.

Generalmente queste tecniche vengono rivolte a praticanti più esperti, quelli con alti livelli di percezione e propriocezione. A livello di comprensione e di realizzazione di tali stadi di conoscenza non deve più esistere alcun tipo di vincolo e di repressione, le sensazioni diventano vere emozioni, il vero aspetto vibrazionale del nostro essere interiore.

Che cosa ci insegna lo Yoga dunque?

Lo Yoga dunque ci insegna, attraverso l’esercizio della consapevolezza, a rimanere nel qui ed ora, andando ad indebolire le nostre reazioni automatiche di rimuginio del pensiero e di reiterazione costante ed ossessivo dello stesso, permettendoci, attraverso una pratica costante di conoscenza, ovvero dovremmo essere capaci di sostituire avidya, l’ignoranza, la non cognizione, con prajna, la saggezza intuitiva.

Concludendo, si può dire che la consapevolezza, nello Yoga, è il riuscire a generare cinque sguardi mentali partendo dall’esterno per poi andare al nostro interno, ed avere la capacità di osservare i panchakosha (le cinque fodere) nella loro interezza, proprio come “sfogliare una cipolla”. Un percorso certamente non semplice, da me molto semplificato, ma nel quale vale la pena potersi immergere!

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